Diario di un giovane partigiano ebreo
La settimana precedente la giornata dedicata alla memoria della Shoah, ricevo un plico postale. Apro e trovo un libro di recentissima pubblicazione (dicembre 2012, ed. La Comune) di un mio caro e vecchio amico milanese, l’avv. Duccio Jachia, dal titolo “Evasione in bicicletta – diario di un giovane partigiano ebreo”. Lo scorro e noto con grande sorpresa che si tratta di un diario sulla “saga” della sua famiglia dal 1938 al 1945 e della sua attività di partigiano, pubblicato solo ora a distanza di oltre 65 anni.
Partecipai con lui nel lontano 1949 al raid Milano-Oslo della Freccia Rossa (una cavalcata di oltre 8mila chilometri di 25 rovers – scouts lombardi dell’ASCI in sella a minuscole moto leggere, i leggendari guzzini, per portare attraverso tutta Europa il messaggio e l’appello di pace e di amore dei mutilatini di Don Gnocchi). Benché fossimo stati insieme durante questa indimenticabile impresa per ben 40 giorni, non mi fece mai cenno ne allora ne dopo dei travagliati anni passati prima e durante la guerra da lui e da tutta la sua famiglia.
Si legge nel suo diario che il padre, anch’esso avvocato oltre che ebreo anche antifascista, venne radiato dall’ordine nel 1938 per la sua attività forense a difesa di numerosi antifascisti. Era particolarmente inviso al gerarca fascista di Cremona Farinacci. I figli furono espulsi dalle scuole del Regno. Duccio (classe 1925) ed il fratello minore Ugo (classe 1927), allontanati da Milano trovarono accoglienza a Brescia presso il collegio Arici dei Gesuiti sotto la protezione dal preside, Padre Battisti, antifascista . Qui studiarono ambedue per alcuni anni gomito a gomito con vari coetanei bresciani, alcuni antifascisti altri di tendenza fascista. I compagni di collegio fascisti più grandi e più forti li insultano “Giudei” e li picchiano. Padre Battisti insegna a difendersi da soli, senza interventi superiori: “colpiteli alle spalle e scappate, ma non fatevi vedere da noi se no vi puniamo: la legge è uguale anche per i più piccoli”. Ricorda nel suo diario, Duccio, che i suoi compagni di banco Dario e Flaviano gli passavano i compiti. Flaviano gli diceva «ti lascio copiare se dici “porco duce”». Allora lui sotto voce «porco duce» per paura di P. che lo minacciava e Flaviano «Dillo più forte, se no non ti passo niente». E lui di rimando ripeteva “porco” forte e “duce” a bassa voce.
Duccio seguì poi Padre Battisti a Padova dove era stato nominato rettore del pensionato universitario “Antonianum”.
Nel frattempo, nel 1940, suo padre venne arrestato a Casalmaggiore, dove la famiglia si era trasferita da Milano in un podere di proprietà, incarcerato e trasferito nel campo di internamento di Urbisaglia in provincia di Macerata. Fortunosamente liberato, potè alla fine dell’anno riabbracciare i suoi. Nel settembre del 43 il suo acerrimo nemico Farinacci, rientrato dalla fuga in Germania, lo fece arrestare nuovamente ed internare nel Campo dei “Canili” di Cremona. La moglie, inutilmente, intervenne di persona presso Farinacci per il rilascio del marito.
La famiglia migrò allora, come ultimo rifugio, a Padova. Si insediarono a Ziniago, un paesino vicino a Venezia, sotto falso nome e con documenti falsi, spacciandosi per profughi sardi. La Sardegna era l’unica regione occupata dagli alleati dalla quale non si potevano chiedere notizie o documenti. Si trovarono ad abitare uscio a uscio con una famiglia di orientamento fascista e subirono perquisizioni da parte delle Brigate nere. Certamente qualche sospetto era trapelato: erano tutti alti di statura e il loro accento non era propriamente sardo.
Qui incominciò la vita di partigiano di Duccio, ma anche tutta la sua famiglia, madre, fratello e sorella, collaborò con i partigiani, prendendosi beffa spesso e volentieri dei fascisti e delle brigate nere. Il ceto a cui appartenevano, il livello culturale e soprattutto l’esperienza di perseguitati accumulata fin dal 1938, li avevano allenati alla sopravvivenza. Avevano deciso di non riparare all’estero, ma di vivere in Italia allo scoperto, tesi tutti ad architettare l’evasione del capofamiglia.
La famiglia era in rapporti con l’arcivescovo di Cremona Mons. Giovanni Cazzani, oppositore del fascismo ed in particolare del gerarca locale Farinacci.
Desidero qui riportare le parole, emblematiche, dell’autore per esprimere il pensiero di un giovane ebreo sull’operato di Pio XII e di Mons. Cazzani:
«Pio XII ha nominato “ad personam” arcivescovo Mons. Cazzani, il vescovo antifascista di Cremona. È uno dei gesti tipici della diplomazia di Pio XII contro i fascisti. Una dichiarazione pubblica di condanna del fascismo e del nazismo che non può prestarsi a proteste o ritorsioni. Quando Pio XII non aveva ancora visto i carri armati dei tedeschi in piazza S. Pietro e ricevuto le loro minacce, poteva esprimersi con le durissime encicliche e con gli articoli sulla stampa vaticana. Ora invece la sua protesta è più misurata, ma continua. Filtrano da vaticano le denunce dei campi di eliminazione di ebrei, con particolari raccapriccianti. Si parla della sterilizzazione delle bimbe ebree e di mille altre sevizie riferite dai sacerdoti polacchi. Naturalmente non si può citare la fonte. Radio Londra lascia intendere con qualche equivocità che le notizie e i commenti provengono dal Papa, quando la chiave del commento è riferita alla legge divina.
Per mons. Cazzani la pronuncia è più diretta, ma è pubblica, ufficiale e la sfida è clamorosa: Voi lo perseguitate, e io lo propongo di esempio e di guida. Voi lo tacciate di essere amico e protettore degli ebrei, degli antifascisti e dei perseguitati ed io la dichiaro mio amico personale e fedele interprete del mio pensiero. La nomina “ad personam” esclude infatti meriti civili o religiosi della Diocesi di Cremona, e quindi delle Autorità Fasciste della città. L’importanza pratica di questo gesto sta nel fatto che praticamente è stato mobilitato tutto il clero cattolico contro i fascisti, e che è possibile chiedere aiuto a qualsiasi religioso, invocando l’obbedienza al Papa e al segreto confessionale. Fino ad oggi, a parte alcuni settori notoriamente antifascisti, come i Gesuiti, vi erano anche dei sacerdoti e dei vescovi moderatamente fascisti. Da oggi ciò non è possibile».
Nel gennaio del 1945 Duccio, con la complicità di amici, dopo una lunga e meticolosa preparazione, riesce ad organizzare l’evasione del papà dall’ospedale di Cremona (dove era stato trasferito dal campo di internamento). Il giorno 5 lo preleva ed insieme in bicicletta, eludendo i blocchi tedeschi, raggiungono rocambolescamente Padova.
Egli prosegue poi la lotta partigiana con i compagni della Brigata Martiri di Mirano Veneto, alla quale si era unito anche il fratello Ugo.
Gli avvenimenti narrati da Jachia ci offrono la testimonianza e una cronaca diretta di evasioni, tradimenti, fughe, rastrellamenti e stragi che hanno condotto a morte parecchi membri della Brigata Martiri di Mirano Veneto.
Ritengo che il diario di questo giovane partigiano ebreo e la “saga”della sua famiglia meriti di essere conosciuto anche dai lettori bresciani, sia perché egli è stato accolto per gli studi a Brescia, studente “espulso da tutte le scuole del regno”, sia perché fa conoscere alcuni aspetti della resistenza in un luce insolita, al di fuori della retorica dei soliti schemi. «In questo periodo di fuga – scrive – abbiamo riso, sperato e vissuto, incredibilmente, felici, perché ciascuno dei 500 giorni di vita all’aria libera ci hanno portato una gioia e un motivo di speranza e serenità e anche una beffa e una sfida a chi ci voleva morti o prigionieri, e a chi ci voleva male. Noi ridevamo della loro stoltezza e delle nostre astuzie, della loro forza e della nostra debolezza».
Giovanni Scandolara Brescia, febbraio 2013