Dal resistere al generare: non basta resistere in un mondo caotico.
Resistenza/Resistenze al femminile ANPI Brescia – aprile 2024
Achille Orsenigo
Tutti noi abbiamo la necessità di adattarci, metterci in relazione coi diversi contesti in cui viviamo o di cui abbiamo notizia, di preservare, trovare o costruire una nostra identità e un senso alla nostra esistenza. Un modo sufficientemente buono di vivere. Quindi come vivere nel mondo in cui per sorte siamo nati o in quello in cui siamo poi andati o ci hanno portati.
Tra i problemi, le avventure che sono parte della nostra esistenza, che ci stimolano e tormentano c’è anche quella dell’identità sessuale: essere donna, uomo o altro.
Con le vostre ricerche oggi abbiamo potuto sentire e vedere una serie di spunti assai interessanti. Che hanno sollecitato interrogativi e riflessioni attorno al tema della resistenza di fronte all’oppressione, del resistere ai maltrattamenti, nelle sue diverse forme.
Premessa tutta la mia solidarietà e gratitudine verso chi ha resistito e resiste, anche con la forza (1), ai soprusi, alla violenza nelle sue diverse forme, ho pensato di proporvi dei pensieri sul resistere. In particolare sull’osservazione che resistere con le proprie convinzioni, identità, valori, non è sufficiente, perché viviamo in un mondo non solo altamente dinamico, ma soprattuto complesso, a volte caotico, quindi scarsamente prevedibile. Ciò mette a dura prova le nostre capacità di comprenderlo, reggerlo e conservare le nostre identità, facendole convivere con quelle di altri.
Le riflessioni che vi proporrò ruotano attorno a tre parole chiave: resistere, resilienza, generare.
1. Resistere
Resistere significa riuscire a restare sostanzialmente immobili, respingere, tenere il punto a fronte di spinte, sollecitazioni che vogliono o tendono a modificare la situazione. È una parola che deriva dal latino re-sistere, ossia “fermare indietro”.
Si associa, anche nei discorsi, alla roccia, al monolite, all’essere tutto d’un pezzo, a un qualcosa di inaffondabile, di fermo. Frangar, non flectar: un oggetto, un soggetto che è disposto a spezzarsi, piuttosto che piegarsi agli eventi, alle richieste o agli obblighi a cambiare. Sembra rimandare ad un qualcosa di “maschio”: duro fino alla fine. Non a caso, forse, anche in ingegneria militare il maschio è la torre principale nel sistema di difesa del castello.
Resistere rimanda all’assumere una posizione a difesa di qualcosa di importante, vitale. Si tratta di resistere per difendere il proprio patrimonio: murario, economico, culturale, genetico, identitario.
Si resiste per conservare, poi tramandare un sapere, i valori, la Verità.
Il potere in questa prospettiva si manifesta nella capacità di resistere, chiudendosi all’altro, al diverso, alla novità. Si parla di forze conservatrici che resistono al cambiamento.
Bisogna prestare attenzione al fatto che la resistenza non è in sé cosa buona o cattiva. Dipende da cosa si vuole conservare e da quali sono i valori di chi giudica. Il luddismo fu una forma di resistenza all’introduzione di macchinari, c’è una forte resistenza ad accettare l’esistenza dei cambiamenti climatici, c’è forte resistenza ad interpretare diversamente la divisione del lavoro tra uomini e donne. In Iran c’è resistenza da parte di molte donne agli obblighi imposti dalle autorità governative con la sharia e c’è la resistenza di questa autorità e di parte della popolazione che non vogliono l’applicazione di diritti da noi consolidati e rivendicati da una parte orientata al cambiamento. In questi giorni va il pensiero alla Resistenza che ha decisamente contribuito con la lotta armata a liberare l’Italia dal fascismo. Ma c’era anche chi opponeva resistenza, sciaguratamente, nella RSI (Repubblica Sociale Italiana) a chi voleva un’Italia democratica.
La resistenza non è solo un fenomeno sociale, un qualcosa di esterno, ma anche un processo mentale.
Noi, fortunatamente, preserviamo, saperi, storie, identità, ricordi. La nostra memoria in un certo senso resiste al flusso del tempo. Ciò che non c’è più nel mondo esterno può resistere nella nostra memoria. I nostri amici, genitori, i luoghi emotivamente interessanti possono continuare ad esistere mentre fuori di noi non ci sono più. Resistono immagini e sentimenti belli e altri penosi.
Ma una società, una persona, una organizzazione lavorativa che si affida per la sua esistenza al solo resistere sono sostanzialmente sterili: sono destinate, alla lunga, a soccombere.
2. Resilienza
Della resilienza si sente molto parlare e si legge in questi anni. Potremmo rappresentarcela come una forma particolare e per certi versi più evoluta di resistenza.
È un concetto utilizzato in biologia, nelle scienze sociali e psicologia, in ecologia, in ingegneria. Ne vengono dati significati in parte diversi. Qui farò riferimento a quelli delle scienze che si occupano di soggetti viventi.
In questi casi si parla di resilienza come della capacità di un sistema di assorbire energia e di ritornare allo stato iniziale. In specifico in ecologia con resilienza si intende la velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato.
Deriva dal latino re-salire, ossia letteralmente saltare indietro.
Nei discorsi è collegata ad immagini come quelle delle canne al vento, delle molle, dello judo (che significa “via della cedevolezza”), flettersi per non spezzarsi.
In questa prospettiva il potere, la capacità vincente si manifesta non nel restare immobili, ma nella flessibilità associata alla capacità di tornare come si era, passata la buriana.
La resilienza comprende la capacità di ridurre la superficie d’impatto alla spinta esterna, flettendosi temporaneamente, facendo quindi scivolar via l’energia, la spinta fisica o delle idee dell’altro. Non si oppone rigidamente come nel classico concetto di resistenza.
È un’attitudine molto funzionale se poi il contesto torna quello di prima. È un resistere omeostatico, non rigido. Ci sono tempi per piegarsi, per essere anche gravemente minacciati nel proprio equilibrio e poi tempi per ritornare alla giusta posizione precedente. Quindi con la resilienza non si cambia per nulla, se non temporaneamente. Non mi oppongo più che tanto, mi piego e poi torno come prima.
Molta parte del sistema che ha sorretto il fascismo, individui, gruppi industriali, pubblica amministrazione, docenti, sono rimasti sostanzialmente gli stessi: si sono solo piegati temporaneamente alla pressione, alla violenza di un breve periodo, per poi tornare a funzionare sostanzialmente come prima.
Resistere e resilienza sono approcci difensivi di una propria posizione considerata giusta, portatrice di valori “sani” o più adeguata al contesto.
Quale verità, quali valori, quali identità si vogliono conservare con la resistenza o la resilienza?
3. Ma in quali contesti viviamo?
Penso che tutti possiamo concordare sull’osservazione che il nostro non è un mondo statico e nemmeno ciclico, che si ripete uguale a se stesso ad una qualche cadenza. Certo la storia, la nostra stessa esperienza, quella degli anziani ci può dare degli insegnamenti. Ma la vita vissuta dai nostri nonni e genitori è solo per alcuni aspetti eguale a quella dei giovani, il contesto è diverso.
Viviamo in scenari altamente dinamici, irreversibili e caotici. Come già diceva Eraclito “Panta rei”: tutto scorre. Non potrai mai fare il bagno nello stesso fiume, perché l’acqua scorre. Conservare la memoria, resistere, è certamente utile, ma non è sufficiente per affrontare la vita oggi. Anzi a volte può essere disadattativo. Serve conservare, avere memoria, resistere all’oblio, ma non è sufficiente.
Le vite stesse, la storia, le storie delle società, delle culture, delle organizzazioni, delle persone, non sono lineari. Sono scarsamente prevedibili e non sono ripetibili.
Serve il rischio di innovare, di cambiare, in assenza di una Verità con la V maiuscola, di Valori e di un Giusto assoluti.
Serve la capacità di innovare nel vedere e nel fare, pur senza l’illusione di potersi liberare di ciò che faticosamente le persone, le organizzazioni, le società hanno messo insieme.
La mente dei giovani è più attrezzata per farlo, ma non è detto che ci riescano, che affrontino il rischio.
L’impresa, il piacere e la fatica di provarci. Le istituzioni e tra queste la scuola, che sono per tanti versi luoghi di conservazione, dovrebbero essere chiamate ad andare oltre, a coltivare le capacità dei giovani che possono andare oltre la memoria, il resistere.
Resistere, conservare è importante, ma non è sufficiente per ogni specie vivente in un mondo instabile.
Perfino le piante per adattarsi si spostano (lo potete vedere ad esempio in montagna, col ritirarsi dei ghiacciai) e generano nuove specie.
A mio avviso è necessaria la capacità di generare.
Oggi siamo qui a riflettere anche sulla questione femminile e di genere: cosa c’è di più femminile del generare?
4. Generare
Il generare è in senso stretto, fisicamente, una funzione femminile. Solo le donne possono generare, ma hanno bisogno e in genere piacere di farlo con un altro assai diverso: un maschio. I maschi contribuiscono, ma non partoriscono.
Vorrei usare questo concetto in senso figurato. In questa prospettiva allora anche gli uomini possono “partorire”: idee, progetti, oggetti, gruppi, … È a partire da questa immagine che vorrei proporvi una forma diversa di relazione con il diverso, l’altro. Un sistema vivente può prolungare la propria esistenza o quella dei suoi simili generando, non resistendo uguale a se stesso.
Il generare, diversamente dal resistere in senso stretto o dal mantenere una posizione resiliente, produce innovazioni, è un’attività dagli esiti imprevedibili. In azioni generative, con pensieri generativi, l’originalità del prodotto è la norma. In effetti, in natura viene sempre “messo al mondo” qualcosa di originale, sempre diverso, come accade per i figli. Per contro la ripetizione di qualcosa d’identico è del tutto anomalo. Una prospettiva tanto diversa dal resistere per conservare, per quanto è possibile, ciò che già esiste.
Il generare richiede, anche in senso figurato, l’incontro con il diverso (2); un differente non troppo differente perché la generazione sia possibile. Nella relazione generativa col diverso sono presenti il dialogo, il conflitto, l’interrogarsi, l’ispirazione.
Generare è ben oltre il resistere: è dare vita partendo dalla memoria, dal passato, senza ripeterlo. La memoria non è (solo) conservata e celebrata, immobile. È manipolata, reinterpretata, messa in relazione col presente e col futuro, quindi con l’altro da sé. In questo senso la memoria è dinamica. Genera, diventa fertile se messa in relazione con qualcosa d’altro. Altrimenti è solo un qualcosa di istituito, di immobile.
Non basta, in questa prospettiva, sapere, cioè accumulare, sommare il saputo. Nel senso del memorizzare un pur importante bagaglio di saperi. Utilissimi se non soffocano le potenzialità generative.
A conforto di questa mie riflessioni, le neuroscienze, la neuropsicologia hanno messo in luce, in particolare in questo secolo, come la stessa nostra memoria sia dinamica, non uno statico deposito, più o meno affidabile, come si riteneva, in cui sono conservate immagini, parole, narrazioni, valori, emozioni, odori. Dove staticamente resistono. La nostra memoria mentale viene scritta e riscritta. In una certa misura generiamo i nostri ricordi all’interno di uno specifico contesto. Questo accade anche nei sistemi sociali e lo riscontro nel mio lavoro di consulenza e formazione nelle organizzazioni lavorative.
Generare significa sviluppare processi di conoscenza sui fenomeni sociali, sulla violenza, sugli stili di vita, sulle questioni di genere, che portano a pensieri diversi dall’originale. La dimensione vitale, emergente, dei nuovi interrogativi, delle nuove ipotesi, imprevedibile, nasce dall’interazione tra memorie diverse (individuali e sociali) ed è più della loro somma algebrica. Non è solo scelta e scarto. Non è solo resistere con le proprie idee e i propri valori, con quello che già si sa. Sapere è sostanzialmente diverso dai processi di conoscenza, dal pensare, non pensieri prepensati da altri, ma nostri.
Nel generare è inscritta dunque la novità, l’imprevisto, l’ansia dell’incertezza, della perdita della Verità con la V maiuscola. Il generare contiene una forte dimensione inconsapevole ed emotiva, come ben sa chi è genitore, diversamente dal pensiero calcolante, è composto da passioni, da una quota d’incoscienza. I figli, i nostri prodotti in questa prospettiva non sono totalmente prevedibili. Nel generare passione, paura e razionalità si incontrano.
In questa prospettiva il potere, la capacità di influenzare la realtà esterna e interna, sta nella capacità di generare un nuovo pensiero, un nuovo problema, una diversa soluzione, nuovi interrogativi, nuovi sentimenti. Non tanto nell’arroccarsi o nel risorgere, come la Fenice dalle sue ceneri, uguali a se stessi.
Il generare è qualcosa di splendido, miracoloso: uno spettacolo e anche disturbante come un figlio, che scombina per tanti versi la vita, le resistenze e apre alla possibilità di nuove esistenze.
5. Per quali mondi cerchiamo di formare e formarci?
Un ultimo passaggio, visto che mi rivolgo con queste righe al mondo della scuola.
Se vale l’ipotesi introduttiva, ossia che viviamo in un mondo altamente dinamico, complesso e per tanti versi caotico, certamente diverso da quello da cui veniamo, allora è necessario domandarsi: cosa serve per viverci? Cosa ha valore? Attrezzare le giovani generazioni per cosa? Per quale scuola ha senso lavorare, fare fatica (come docenti, come personale non docente e come studenti)? Direi una formazione, una scuola che non solo testimoni la resistenza, la difesa della memoria, il piacere di trasmettere una serie di saperi predefiniti, istituiti, ma che stimoli all’impresa della conoscenza, del generare interrogativi, visioni, problemi, soluzioni e nuove gestioni dei problemi. Diversamente è alto il rischio che si consegni ai giovani solo il compito di custodire un qualcosa di già dato, non fatto proprio da loro e inadatto al mondo in cui vivranno.
Serve, per attrezzare al futuro, una scuola che formi al generare, facendolo sperimentare anche con la ricerca. Generare col diverso. Mettendo assieme in dialogo saperi, esperienze, immagini, interrogativi e pensare in modo meno statico.
Democrazia, libertà, valori, identità, donne, uomini, io, noi: più che come sostantivi, qualcosa che è lì o là, definito, immutabile, dovremmo cercare di pensarli, praticarli, farli vedere come verbi, azioni trasformative, dimensioni in divenire. Se la democrazia è viva e generativa non può essere uguale a se stessa. L’essere donne è in divenire. I valori, le identità, le istituzioni vanno pensati, in questa prospettiva generativa, come non uguali a se stessi nel tempo. Non sono qualcosa che viene tramandato e che va semplicemente conservato, ma come oggetti, sistemi che, se vivi e se li vogliamo vivi, richiedono capacità generative che nascono nell’incontro con il diverso.
Una scuola che ricerca, ossia fa sperimentare il piacere dell’avventura e del rischio, con metodo, con consapevolezza, è un’istituzione di cui abbiamo maledettamente bisogno, noi, ma soprattutto i nostri figli e le nostre società. Un’istituzione in cui non è già tutto istituito.
La sfida quotidiana, per chi cerca di vivere una vita sensata, penso sia la capacità di integrare la memoria, la storia, il resistere, la casa da cui veniamo, con la ricerca, l’imprevisto, la complessità, il generare, i processi di conoscenza, lo sperimentare, l’andare oltre, in un mondo imprevedibilmente caotico. La scuola di Brescia in quest’occasione ha sperimentato dei percorsi che mi sembra vadano in questa direzione.
Note
1 Anche perché non sono un pacifista. Cerco d’impegnarmi, lottare per la pace, ma penso che questa aspirazione non possa essere comunque subordinata alla difesa della propria e altrui vita. Accettare, nel senso del subire, i maltrattamenti e la violenza non fa parte né dei miei sentimenti né della mia visione del mondo.
2 Il generare è notevolmente differente dal creare: produrre dal nulla. La creazione è attività solitaria, ben rappresentata nella mitologia da Atena che nasce dalla testa di Zeus, o dalla creazione del Dio biblico, ma anche dalla narrazione dei cosiddetti creativi delle aziende di moda.