Oggi, il dorso bresciano del Corriere della Sera pubblica un corposo speciale
sulla statua “Era fascista”, il cosiddetto “Bigio”.
Abbiamo raccolto tutti gli articoli e le interviste in un’unica pagina, per renderne più agevole la consultazione.
L’ultimo articolo contiene un’intervista al Presidente provinciale dell’ANPI di Brescia Lucio Pedroni.
Buona lettura.
“POLEMICA E DIBATTITI SULL’ «ERA FASCISTA» RIMOSSA DA PIAZZA VITTORIA NEL 1945”
“Quella statua che divide. La città continua a parlarne. La Loggia chiede un confronto culturale”
Per alcuni rappresenta il maschio simbolo di virilità che nemmeno Salvini prima della Isoardi. Per altri è opera d’arte negata ai posteri che anche i talebani farebbero l’inchino. Altri ancora lo additano come simbolo del Male. C’è chi lo lascerebbe dov’è, chi concede i giardinetti e chi si annoia, al punto da sperare di vederlo finire in mille pezzi. Lui è ovviamente l’Era Fascista, il Bigio di marmo con la foglia che riemerge in modo carsico per appassionare e alimentare il dibattito pubblico. Al bar, sui social, e ovviamente anche in consiglio comunale. Come l’ultimo, altrimenti non particolarmente appassionante, scaldatosi a tempo praticamente scaduto per colpa (o merito, dipende) della Lega a trazione nazionale e dell’ordine del giorno presentato che chiedeva al sindaco di togliere la Stele di Paladino dal piedistallo di piazza della Vittoria per ricollocarvi il Bigio.
L’ordine del giorno fu ritirato con l’impegno che si rinviasse il tutto a una discussione in commissione nella quale ragionare della futura collocazione della statua. Tutti d’accordo, salvo lite perché da Simona Bordonali questo fu interpretato come primo passo per il «ritorno del Bigio in piazza», cosa che ovviamente non fu apprezzata dalla maggioranza. Al di là della polemica consiliare, il fantasma del Bigio è uscito dai magazzini comunali per tornare a far discutere. Galeotta fu la nota di inizio ottobre, con la quale la Fondazione Brescia Musei annunciò che le opere di Paladino in giro per la città venivano restituite all’artista, ad eccezione della stele nera in piazza Vittoria, che invece sarebbe rimasta lì «per qualche tempo».
Poche ore e arriva la risposta della Soprintendenza guidata da Giuseppe Stolfi. Un po’ piccata perché certe cose sarebbe meglio non apprenderle dai giornali. E stizzita soprattutto sul merito: «La posizione della Soprintendenza in merito alla controversa questione concernente la ricollocazione del “Bigio” in piazza Vittoria è da anni ben conosciuta, e contraria a ogni surrettizia “sostituzione” della statua di A. Dazzi con altra opera contemporanea». Passa qualche giorno e arriva la fumata bianca, o quanto meno grigia: «Il confronto tra Loggia e Soprintendenza – si legge in un comunicato del 10 ottobre – è andato nella direzione di costruire un percorso che, nel tempo, permetta di offrire alla città una riflessione storica, politica, artistica e urbanistica sul ruolo e sul valore della statua. Questo potrebbe comprendere una temporanea musealizzazione dell’opera, individuando un luogo idoneo. È stato deciso di avviare un dibattito con la città, il cui esito deve restare aperto e portare a una scelta condivisa e consapevole sul destino della statua». Musealizzazione, quindi, ovvero trasferimento del Bigio di marmo in qualche posto (Santa Giulia o altrove) in attesa di trovare una destinazione definitiva. Nel frattempo l’uomo nero di Paladino se ne resta dov’è, al posto di quello di marmo, e fuori e dentro Palazzo Loggia si continua a discutere. Come finirà, ovviamente, è presto per dirlo. Le posizioni, come illustrano le interviste in pagina, sono eterogenee.
C’è chi lo vorrebbe lasciare in magazzino, chi concede un trasferimento in Castello, chi lo vorrebbe a Carrara (in un museo, non a far gradini di marmo) e chi ovviamente spinge per il suo ritorno in piazza: senza se alcuni, con scritta esplicativa altri. E poi c’è la provocazione di Minini: «Iniziamo a sbattezzarlo: non più Era fascista, ma giovane con uccello per aria». Potrebbe aiutare a uscire dalle secche del dibattito.
“IL DIBATTITO SULLA STATUA FASCISTA”
“Lo studioso Onger: solo 12 anni in piazza dove è la storicità?”
Professore di Storia economia all’università statale, presidente dell’Ateneo di Brescia, Sergio Onger ha fatto parte della commissione che alcuni anni fa dovette occuparsi delle sorti delle statua del Dazzi. La commissione presieduta da Minini, allora presidente della Fondazione Brescia Musei, aveva come componenti i rappresentanti delle Accademie e delle università cittadine.
«Io rappresentavo la Statale e, tutti d’accordo, ritenemmo inopportuno il ritorno in piazza della statua e l’apertura invece alla musealizzazione: quanto detto recentemente dal sindaco Del Bono è quindi perfettamente in linea con quanto suggerito quattro anni fa». Onger, però, non si ferma qui. Ricorda che il documento della commissione considerava «inopportuna la collocazione in piazza Vittoria, onde non rinfocolare polemiche che ne hanno accompagnato l’esposizione fin dall’inizio degli anni Trenta». C’è una questione di opportunità politica… «Con un certo neofascismo di ritorno non mi sembra proprio proponibile l’ipotesi della ricollocazione in piazza della statua». E c’è. da buon storico, anche un richiamo alle polemiche d’allora.
«Quella statua è arrivata agli inizi degli anni Trenta in piazza e ci è rimasta in tutto 12 anni. Dodici anni, ha capito di cosa stiamo parlando? Chi si inventa la storicità di quella statua crea polemiche sul nulla». Onger ricorda inoltre le polemiche che già allora accompagnarono la collocazione della statua, non prevista nel progetto originario. «Fu contestata da tanti fascisti, ci fu anche chi chiese di fare un referendum. Qualcuno polemizzò sui costi eccessivi, ci fu la foglia di fico voluta dal vescovo. Un peccato peraltro perché, non sono storico dell’arte, ma mi sembra che il pisello sia la cosa più riuscita di quella statua». Fuori di battuta, per Onger la statua in realtà c’entra poco con la piazza: «Doveva essere piazza dedicata al 4 novembre e Mussolini chiamò il Bigio l’Era Fascista: che c’entra? E poi, quando l’amministrazione Paroli fece mettere la fontana durante la risistemazione della piazza, la mise pure spostata di un metro e mezzo». Giusto per dire che l’equilibrio architettonico (cavallo di battaglia dei sostenitori) farebbe comunque acqua da tutte le parti, proprio come la fontana. L’affondo finale: «Piacentini, una sgrammaticatura del genere, non l’avrebbe permessa». Ben venga quindi il trasferimento in museo: «O anche in Castello avevamo pensato in commissione. C’è però un problema di cui poco si parla ma non è secondario: spostare quella statua costa tanti soldi. ce n’erano pochi nel 2014, ai tempi della commissione, non credo che ora ve ne siano molti di più».
“L’artista Petrò: brutta statua, resti dov’è ora, in magazzino”
Una discussione interminabile: io, il giorno in cui il Bigio viene portato fuori dal magazzino, troverei il modo di farlo rotolare giù per terra dal camion. Così non se ne parla più e si finisce di litigare per una brutta statua». Paolo Petrò, classe 1948, artista bresciano laureato a Brera per quindici anni nel consiglio direttivo dell’AAB, l’ipotesi del camion che si rovescia la mette lì un po’ per scherzo e un po’ come provocazione, ma in fin dei conti forse spera davvero che il Bigio possa finire in mille pezzi. «Guardi, la questione è semplice: la statua è stata abbattuta perché era un simbolo del fascismo. Punto, la discussione è finita e non va rimessa in piazza. L’arengario, che è simbolo fascista ancora più forte, non è stato buttato giù, c’è ancora, ed è giusto che oggi resti dov’è. Abbiamo mille altri temi su cui ragionare e discutere, anche restando sul piano delle politiche culturali, che non il Bigio. Questa è una questione politica e come tale va trattata». Ecco parliamo, d’arte: la statua in un museo? «A me sembra sciocco anche metterla in un altro posto, non stiamo parlando di un Michelangelo. Dazzi, a dirla tutta, non era un cattivo scultore, ma quella statua lì è veramente orribile. Mio nonno, monarchico, mi diceva delle cose orribili su quella statua». Così orribili, da non volerle ripetere nemmeno in un’intervista: «Quella statua è sempre stata presa in giro, non è mai stata apprezzata dal popolo. Tirar fuori continuamente la polemica è solo una strumentalizzazione politica. A volte mi sono sentito dire che anche i tombini hanno il fascio littorio e nessuno li sostituisce, ma non c’entra nulla tutto questo, è un’altra cosa: i tombini sono rimasti dopo la guerra e restano lì. Se fossero stati tolti a nessuno, spero, verrebbe in mente di andare a riprenderli nei magazzini comunali dove sono stati dimenticati». Perché, proprio così, per Petrò la discussione alla fine non ha molto senso sul piano artistico. L’opera per lui è brutta e tanto gli basta per dire che è meglio se ne stia dov’è, in magazzino, senza tante questioni se trasferirla in un museo o meno («non ha senso spostarla da un’altra parte», ripete). O, peggio, riportandola in piazza. E del «Bigio nero» del Paladino che pensa? «Se devo essere sincero non mi piace molto nemmeno quello». Questo è però un altro discorso: sul Bigio bianco il giudizio è tranciante.
“Bigio, il gallerista Colossi: il suo posto è piazza Vittoria”
«La mia posizione? quella di quattro anni fa, quando esponemmo il Bigio in miniatura dello scultore Stefano Bombardieri. Novantanove esemplari, accompagnati da un piccolo libretto, un bigino appunto, sulla storia del Bigio». Così Daniele Colossi, storico gallerista alla guida della galleria omonima in Corsia del Gambero, in pieno centro storico. Il bigino in miniatura, 40 centimetri di altezza, meno imponente della statua da 7 metri, ebbe anche un discreto successo commerciale.
Daniele Colossi, ci aiuti a capire l’operazione Bigio in miniatura. «Già allora il dibattito imperversava e noi facemmo un tentativo per alleggerire la discussione ed evitare di drammatizzare troppo il piano del confronto. Personalmente non credo che la discussione sul Bigio debba essere troppo politicizzata». Un po’ politica la discussione lo è inevitabilmente, però. «Se è così la statua la lasciamo dove si trova, in magazzino. Ma se non è politica il piano del discorso cambia». E lei su che piano preferisce stare? «Io sarei per il riposizionamento della statua là dove si trovava, cioè in piazza della Vittoria. Sarebbe una soluzione architettonica adeguata che ridarebbe senso compiuto al tutto. Ovviamente non è che la mettiamo ed è finita lì». Cioè? «Metterei anche una scritta di carattere esplicativo, non tanto sulla storia della statua, quanto a ricordo. Qualcosa del tipo: ‘A ricordo delle vittime e di chi ha sofferto a causa della dittatura fascista’. Qualcosa del genere, insomma, per sottolineare che la statua ritorna ma non si dimentica. E così avremmo anche un completamento architettonico con monito annesso». L’idea di portare la statua in un museo non le sembra un buon compromesso? «Mi sembra un compromesso senza senso. Stiamo parlando di arte o politica? Se è arte la facciamo tornare in piazza, con tutti gli accorgimenti del caso, se è politica la lasciamo dove si trova in questo momento».
Nel frattempo, in attesa che il Bigio a grandezza naturale trovi collocazione, gli estimatori della statua del Dazzi devono accontentarsi del Bigino da 40 centimetri. Fu venduto in 99 esemplari a 1.000 euro ognuno. L’artista autore dell’operazione, Stefano Bombardieri, qualche Biennale di Venezia alle spalle, allora sgombrò il campo da furbate di carattere politico: «L’esatto contrario — disse —. serve a ridimensionare i toni francamente sproporzionati del dibattito sul Bigio grande».
“Bigio, Robecchi: «Il suo posto è la piazza, il museo è un ripiego»”
La musealizzazione? Un ripiego, un pannicello caldo che non risolve il problema, nulla più: il posto del Bigio è in piazza della Vittoria, non altrove». Franco Robecchi, storico locale, al Bigio ha dedicato pure un libro, «Brescia e il colosso di Arturo Dazzi», uscito per i tipi della Compagnia della Stampa, nel quale ricostruisce storia, polemiche, dettagli, aneddoti e segreti sul Bigio. «Che il posto sia in piazza non lo dico solo io, lo fa anche il sovrintendente, mica l’ultimo arrivato. Poi sì, se mi dice che o lo si mette in un museo o se ne resta in un deposito, dico che è meglio finisca almeno in un museo. Ma è un’ipotesi che non mi piace». A chi osserva che il Bigio, però, non è solo una statua, ma è il simbolo dell’Era fascista, così come è stato anche chiamato, replica: «Guardi, premesso che buttare giù le statue non è mai una bella cosa, premesso che anche in Russia mi risulta che qualche statua di Lenin e Stalin siano rimaste al loro posto e non si stia discutendo se toglierle, anche all’Eur c’è il super obelisco e, a parte la Boldrini, nessuno si è mai messo in tesa di tirarlo giù». Affina la posizione: «La statua non ha evidenze esplicite al fascismo: alla fine, se lo si osserva, è un ragazzone nudo. Non è che ha inciso il fascio littorio o è raffigurato mentre sta strangolando dei comunisti. Certo, è stato caricato di significato, è stato chiamato l’Era Fascista, ma in piazza, se si osserva, è rimasto ben altro di quel periodo e nessuno ha mai detto che debba essere tolto». Pensa all’arengario, sul lato opposto o quasi della piazza: «Lì sì che ci sono tre o quattro fascisti con tanto di fez che fanno il saluto romano». Questo per dire che «la contraddizione in piazza Vittoria è vistosa». Insomma, se il Bigio deve muoversi, che lo faccia nella sua destinazione originaria, ovvero la piazza. D’altronde, come recita il sottotitolo del suo libro il tema è quello della «Nascita, caduta e riabilitazione della statua politicamente scorretta di piazza Della Vittoria». La nascita c’è stata, la caduta anche, rovinosa, con tanto di cerotti e ammaccature di vario genere rimesse a posto ma che ci sono. Manca la riabilitazione collettiva, ma per Robecchi (e non solo lui) a quella si deve arrivare, con il ritorno in piazza. «Poi, sì, a litigare con le statue si sono messi anche negli Stati Uniti, abbattendo quelle di qualche generale sudista nella guerra di Secessione di un secolo e mezzo fa». Insomma il dibattito culturale che si sta aprendo a Brescia per volere del sindaco è destinato a portare ad un confronto serrato tra storia, arte, un po’ di ideologia e urbanistica.
“Bigio, il presidente ANPI, Pedroni: No alla piazza. Altrove? Parliamone”
«Con tutti i disoccupati e poveri che ci sono in giro a Brescia, con il problema dell’inquinamento che abbiamo, c’è ancora gente che è qui a menarla con la storia del Bigio?». Lucio Pedroni, 64 anni, è presidente dell’Anpi. Figlio d’arte a suo modo, nel senso che è figlio di Lino, 122esima Garibaldi, ma lui per questioni anagrafiche la resistenza non l’ha fatta. «Ovviamente sono un genuino antifascista, ecome me spero tanti altri», sorride. L’Anpi a Brescia, l’associazione partigiani, dopo anni di calo degli iscritti ha fatto il botto in occasione del referendum sulla Costituzione del 2016: «Eravamo saliti a 4mila iscritti in provincia di Brescia, ora siamo intorno ai 3.500, un po’ più stabili ma più che in anni passati: abbiamo guadagnato tra i giovani e in settori meno tradizionali, abbiamo perso qualcosa in altri».
E Il Bigio? «Come le ho detto, non mi sembra il tema principale di cui parlare in città. Detto questo, se vuole sapere la mia opinione questa è che il Bigio in piazza Vittoria proprio non deve tornare, sul resto discutiamo». Il primo punto è chiaro e ribadito: «L’Anpi è assolutamente contraria all’ipotesi di ritorno del Bigio in piazza Vittoria. È stato il simbolo del fascismo e se quella statua è stata buttata giù un motivo c’era. E, non sono un critico, ma me lo lasci dire: quella statua è pure bruttina, non è che stiamo proprio parlando di una grande opera d’arte».
L’ipotesi di musealizzazione? «Su quello possiamo discutere, di sicuro non ci mettiamo a fare le barricate se viene spostato dal magazzino e messo da qualche altra parte. Non in piazza, ovviamente. Poi, certo, se lo si porta fuori provincia meglio ancora: mi sembra che a Carrara ci sia un museo con le statue del Dazzi…».
Difficile che venga tirato fuori dai magazzini per finire a Carrara, più probabile resti a Brescia? «Il Museo di Santa Gulia? Non so (pensoso e meditabondo), potrebbe essere una soluzione. Meglio che non sul lago di Garda, a Gargnano o a Salò. Li si rischierebbe di fare la Predappio 2, con nostalgici di ogni risma che vanno al capezzale del Bigio». In luoghi dove. senza gli eccessi del posto dove Mussolini è sepolto, non è difficile incontrare gruppi che evocano e visitano i luoghi della Repubblica sociale Italiana, come accade ad esempio ogni anno in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma.
E il Bigio nero, l’opera di Palladino? «Lo sa che quella statua è bella? È ben inserita nel contesto, sta bene, non c’è che dire. E mi sembra una bella soluzione: perché non la teniamo lì per vent’anni e poi ne ridiscutiamo?». Perché sì, per Pedroni sarebbe meglio occuparsi di altre questioni che non ritorno o meno del Bigio: «Non fa bene nemmeno a quella statua la discussione, mi creda»