Buongiorno, buon sabato e grazie a tutte e a tutti,
in particolare ai ragazzi ed alle ragazze degli Istituti superiori, ai/alle loro insegnanti, a/alle loro dirigenti per aver accettato l’invito delle associazioni partigiane ANPI e Fiamme Verdi di Brescia e di essere presenti qui stamattina al convegno “I SIMBOLI DELLA FORZA, LA FORZA DEI SIMBOLI”, un’occasione per riflettere circa il significato storico e culturale degli elementi urbanistico e architettonici attraverso cui il regime fascista del ventennio mussoliniano aveva cercato anche a Brescia di affermare anche attraverso il “fascismo di pietra”, come l’ha definito Emilio Gentile, uno dei più importanti studiosi del fascismo storico, il proprio progetto di dominio totalitario. È un’iniziativa che assume un significato ulteriore tenendo conto che viene a coincidere con l’avvio del 70° anniversario dei 20 mesi della Resistenza e della lotta di Liberazione e cade alla vigilia del quarantennale della strage di Piazza della Loggia. Il convegno è stato organizzato dal Comitato provinciale di Brescia dell’ANPI, di cui sono il presidente, insieme all’”Associazione Fiamme Verdi” di Brescia aderente alla FIVL rappresentata qui dal coordinatore provinciale Alvaro Peli, in concreta collaborazione con l’Archivio Storico della Resistenza Bresciana e dell’Età Contemporanea dell’Università Cattolica del SC di Brescia, la Fondazione Micheletti e l’Aref Associazione artistica e culturale Emilio Rizzi – Giobatta Ferrari di Brescia, col Patrocinio ufficiale dei Comitati nazionali della Federazione Italiana Volontari della Libertà e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, nonché di quelli del Comune di Brescia e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, che ci ospita nello spazio prestigioso della propria Aula Magna, in cui ci troviamo.
Le ragioni e le motivazioni di questo appuntamento.
Le Associazioni partigiane ANPI e FIAMME VERDI di Brescia, a distanza di alcuni mesi dall’avvio del dibattito pubblico suscitato dalla decisione dell’allora amministrazione comunale intesa a ricollocare a Brescia, in Piazza Vittoria, la statua del nudo maschile simbolo dell’era fascista, opera dell’artista Dazzi, popolarmente indicata col nomignolo di “Bigio”, intendono riprendere le sollecitazioni a più riprese emerse da quel dibattito, offrendo alla cittadinanza, alle associazioni, alle Istituzioni – in particolare a quelle scolastiche – un’occasione di approfondimento e confronto sul tema dei manufatti urbanistico-monumentali realizzati in età fascista nella nostra città. Se la vicenda della ricollocazione o meno di quella statua è stata lo spunto e fermo restando il dovere di cogliere e di rispettare il senso delle vicende amministrative di pochi mesi fa quando i bresciani e le bresciane hanno scelto una nuova amministrazione che aveva fatto della non ricollocazione della statua del Dazzi uno dei punti del suo programma, quella questione, quel manufatto non è l’oggetto specifico, il fuoco di questo convegno. Infatti quello di questa mattina è un appuntamento attraverso cui le associazioni partigiane di Brescia assolvono all’impegno che avevano preso nella scorsa primavera – insieme ai gruppi ed alle associazioni che come l’ANED, l’ANEI, il Gruppo giovanile ANPI-Nuova Resistenza, la Sez. ANPI centro storico Brescia, la ReteAntifascista, il Movimento Nonviolento, l’Associazione Libertà e Giustizia, l’Archivio storico Fondazione Micheletti, che agivano con noi nella campagna per la sospensione dei lavori di ricollocazione dell’opera del Dazzi, associazioni e gruppi che qua ringraziamo – l’impegno cioè di proporre, una volta usciti da quella fase di accesa querelle, di contrapposizioni e polemiche legate anche all’attualità politica amministrativa, al di là degli esiti che si sarebbero avuti su quel piano, di proporre dicevo un’occasione per sviluppare una riflessione ed un ragionamento più complessivi sui processi sociali e culturali, politici ed economici di cui gli interventi urbanistici e architettonici nel tessuto urbano attuati dal regime fascista sono stati il prodotto e con cui hanno interagito come fattori sul piano materiale e su quello simbolico educativo. Un convegno quindi per inquadrare dal punto di vista storico e culturale la presenza di tali evidenze, per coglierne le valenze simboliche e propagandistiche, in modo da essere in grado di affrontare con cognizione di causa e strumenti culturali adeguati le problematiche relative al senso ed al significato di tali presenze oggi in rapporto alla coscienza collettiva e alle Istituzioni democratiche dell’Italia repubblicana, e quindi per poter ragionare della destinazione e della fruizione di quegli elementi. Così si è ritenuto opportuno dare al convegno, quindi, un taglio prevalentemente didattico, con lo scopo di riprendere e di rimettere a fuoco per chi se lo fosse dimenticato o per chi non ne fosse a conoscenza, il ruolo che ha avuto la cultura italiana nel suo complesso e l’urbanistica e l’architettura specificatamente a Brescia, per fascistizzare le italiane e gli italiani nel progetto di dominio mussoliniano. A questo proposito, concludendo l’introduzione, vi proporrei due concetti interpretativi elaborati dal filosofo francese Abensour, nel suo breve saggio Della compattezza. Architetture e totalitarismi edito ora anche in Italia, due parole a mio parere molto efficaci per rappresentare delle proposte urbanistico architettoniche alternative, due parole come COMPATTEZZA e POROSITÀ. Secondo Abensour non è stigmatizzando lo stile “neoclassico” piuttosto che “modernista” adottato da Speer o da Piacentini, i due architetti dei due regimi – uno programmaticamente al servizio del nazismo, l’altro pragmaticamente a quello del fascismo, ma con esiti omologhi di spersonalizzazione ed annientamento di ogni soggettività individuale e collettiva attraverso spazi aridi, freddi e scostanti – che andremo al cuore del problema o capiremo meglio come l’architettura sia stata mezzo essenziale del potere: non si tratta, quindi, di cadere nel tranello dell’identificazione fra totalitarismi e stili architettonici, piuttosto si tratta di interrogarci sulla “qualità dell’esperienza fondamentale di comunità umana” che tali architetture imponevano, per usare le parole di Hanna Arendt, e aggiungo io, come veri e propri dispositivi educativi diffusi. Abensour per descrivere lo stravolgimento degli spazi, e quindi delle dinamiche sociali, ci lascia alle parole di Speer nelle sue Memorie del terzo Reich : “Noi progettavamo e costruivamo senza usare un metro reale. (…) Vedendo le fotografie di quegli edifici privati e di quei negozi sono preso ogni volta da un senso quasi di paura, comprendendo che la rigida monumentalità della Strada avrebbe reso vani tutti i nostri sforzi di portarvi la vita della città”. E ancora: “Ma tutte queste cose io le vedevo nel quadro generale, Hitler no. La sua passione per gli edifici destinati all’eternità lo rendeva cieco alle soluzioni del problema del traffico, ai quartieri residenziali, alle zone verdi: la dimensione sociale non suscitava il suo interesse”. Abensour allora individua il quid nominabile dell’architettura dei totalitarismi nella nozione di compattezza, entro la quale raccoglie l’aspirazione all’eternità ottenuta attraverso l’uso di mura e strutture massicce fatte per sfidare i millenni, la scala monumentale e schiacciante, l’abolizione degli spazi di frizione e confronto, la manipolazione delle percezioni che da individuali devono essere costrette verso un collettivo indifferenziato e sazio, verso quel farsi massa che rassicura e ottunde perché non lascia intravedere nessun altra possibilità, se non farsi tutt’uno con l’uomo solo al comando che la arringa dall’arengario. Ma la definizione migliore della compattezza, per contrasto, Abensour la formula ricorrendo alle impressioni ricavate dal viaggio a Napoli, nel 1928, di Walter Benjamin, ma ricavabile da tanti altri centri storici medioevali italiani, compreso quello delle Pescherie a Brescia abbattuto per far posto alla piacentiniana Piazza Vittoria: “Porosa come questa pietra è l’architettura. Struttura e vita interferiscono continuamente in cortili, arcate e scale. Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni. Il definitivo, il caratterizzato vengono rifiutati. Non c’è alcuna situazione che appaia concepita per rimanere uguale per sempre – nessuna forma afferma di essere così e non altrimenti.” È un’ispirazione quest’ultima a cui Brescia potrebbe rifarsi nel risolvere il “che fare” per risolvere la questione del completamento definitivo di Piazza della Vittoria: “musealizzazione” della statua del Dazzi ed “installazione” di un controcanto che esprima senso di libertà, vita, democrazia, accoglienza e calore umano rispetto ad uno spazio freddo, arido, scostante e annichilente come quello piacentiniano.
Per tutte queste ragioni l’impianto del convegno propone un’ottica di riflessione che supera le dimensioni prettamente locali nella prima parte con gli interventi della prof. Alessandra Tarquini e del prof. Francesco Germinario, per declinare sulla base di quell’inquadramento, le questioni generali in ambito locale nella seconda parte con gli interventi del prof. Roberto Ferrari e del Prof. Rolando Anni, e concludere con l’intervento di Gianni Girelli del coordinamento provinciale delle Fiamme Verdi. Si tratta di relatori e studiosi, come si dice in questi casi, di chiara fama e competenza, rappresentanti di Istituzioni culturali di prestigio a cui ci affidiamo per riflettere, come dice a conclusione del suo “Storia della cultura fascista” Alessandra Tarquini “su un tema che forse a qualcuno potrà sembrare superato, e cioè, chiedersi ancora come mai gli italiani sono stati fascisti” e aggiungo io, la cultura fascista per certi versi continui ad essere presente nella nostra società.
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