Cevo, 1° luglio 2012
Due furono i poli principali della Resistenza in Val Camonica: il primo tra Darfo e Cividate, il secondo in Valsaviore, dove, nell’ottobre del 1943, nacque la 54a Brigata Garibaldi, intitolata a Bortolo Belotti.
Sul fronte opposto, in queste stesse zone, operava la tristemente nota Banda Marta, un gruppo di miliziani che seminavano terrore attraverso rapine, furti ed efferate violenze.
I partigiani, sebbene limitati negli armamenti e nelle forze, riuscirono a infliggere perdite significative ai repubblichini, in particolare grazie al sostegno e all’aiuto della popolazione civile.
L’azione più clamorosa fu compiuta proprio nei primi giorni del luglio ’44, con l’assalto alla centrale idroelettrica di Isola di Cedegolo; azione che scatenò una feroce rappresaglia.
La mattina del 3 luglio, infatti, circa 2000 fascisti salirono verso Cevo. I 25 garibaldini che si trovavano in paese per celebrare i funerali di Luigi Monella – caduto a Isola – dovettero sostenere uno scontro impari.
I fascisti misero a ferro e fuoco il paese: 151 edifici vennero completamente distrutti e oltre 800 persone rimasero senza casa.
Il paese continuò a bruciare per tre giorni e per tre notti e il comando fascista di Breno dichiarò che la Val Camonica sarebbe diventata una valle di sangue.
Ma il piano di distruggere Cevo e con esso la Resistenza nella Valsaviore e nella confinante Val Malga, anziché dare i risultati che il nemico sperava, contribuì a rinsaldare il legame tra popolazione e combattenti.
Dopo lo scontro, l’amministrazione del paese fu affidata a una giunta in contatto con il Comando partigiano, che la Prefettura fascista fu costretta a subire, mentre il 20 luglio la Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi si complimentò per la resistenza opposta, assegnando alla Brigata il n. 54; notizia che fu comunicata ufficialmente il 3 settembre del 1944 al Prato Lungo, in occasione del grande raduno organizzato per condividere con la popolazione civile le scelte da compiere e dal quale l’unità e la volontà popolare di proseguire la lotta uscirono rafforzate.
Al raduno del 3 settembre – come scrive molto efficacemente Wilma Boghetta nel suo libro “La Valsaviore nella Resistenza” – partecipò “tutto un popolo e, si può dire, quella che voleva essere la patria dell’imminente domani”.
Tra i tanti presenti vi era anche il Vice comandante della brigata Bigio Romelli, con la moglie e la figlia Rosy, la più giovane partigiana combattente d’Italia, la cui storia – che ho avuto il piacere di ascoltare tante volte, accompagnando Rosy nelle scuole bresciane a incontrare gli studenti – ci offre lo spunto per toccare il tema del contributo femminile alla Resistenza, prendendo parte alla quale le donne sono state impegnate in una duplice lotta: non solo quella – che hanno condiviso con gli uomini – per liberare il nostro Paese dal nazifascismo, ma anche quella per liberare se stesse dalla cultura patriarcale dominante, fino alla conquista del diritto di voto e all’elezione di 21 donne all’interno dell’Assemblea Costituente.
Tornando al raduno del 3 settembre ’44, credo lo si possa considerare l’incontro della rinascita, per ricostruire dalle ceneri un paese nuovo. Perché la lotta resistenziale, pur senza negarne la componente militare, fu essenzialmente un movimento teso a instaurare un nuovo ordine sociale, politico e costituzionale.
Per questo sono convinta che ricordare oggi, soprattutto ai più giovani, cos’è stata la Resistenza non sia solo un dovere di memoria storica, ma significhi in primo luogo insegnare che senza di essa non avremmo riconquistato libertà e dignità, non disporremmo oggi di una Costituzione democratica e antifascista.
Sussiste, infatti, uno strettissimo legame tra Resistenza e Costituzione, in quanto i valori di libertà, eguaglianza, pace, solidarietà, giustizia sociale, affermati nella lotta di Liberazione sono stati poi trasfusi nella Carta costituzionale del 1948.
Proprio interrogandosi sulle radici profonde di essa, due Padri Costituenti, Giuseppe Dossetti e Pietro Calamandrei, hanno messo in luce l’uno la rilevanza dell’evento globale che l’ha ispirata – ossia l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale – l’altro il legame genetico con la lotta di liberazione; ragione per la quale non si può disconoscere che il presupposto politico della Costituzione italiana sia rappresentato dal capovolgimento delle categorie fasciste.
Mentre, infatti, il fascismo si fondava sulla discriminazione (fino all’estrema abiezione delle leggi razziali del 1938), i Costituenti, al contrario, hanno assunto l’eguaglianza e l’universalità dei diritti dell’uomo come fondamento dell’ordinamento.
Mentre il fascismo aveva soppresso il pluralismo, perseguendo una concezione totalitaria del potere, i Costituenti, al contrario, hanno concepito una struttura fondata sulla divisione e sull’articolazione dei poteri, prevedendo altresì – profilo rispetto al quale appaiono illuminanti le parole pronunciate in Assemblea Costituente da Aldo Moro – che lo Stato sia al servizio della persona e non viceversa.
Mentre il fascismo aveva aggredito le autonomie individuali e sociali, i Costituenti le hanno ripristinate, tutelando i diritti inviolabili dell’uomo – e sottolineo dell’uomo, non del solo cittadino, quindi stranieri inclusi – uomo sia inteso come singolo sia nelle formazioni sociali, a partire dai partiti politici, definiti strumento per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Mentre il fascismo aveva celebrato la politica di potenza e la convivenza con la guerra, i Costituenti ne hanno sancito il ripudio, riconoscendo la supremazia di un diritto internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, in quell’art. 11 che Calamandrei definì come una “finestra” dalla quale “si riesce a intravedere laggiù quando il cielo non è nuvoloso qualcosa che potrebbe essere gli Stati Uniti d’Europa e del Mondo”.
E ancora si pensi al riconoscimento dei diritti sociali e alla scelta dei Costituenti di fondare la Repubblica sul lavoro, per sottolineare – come rilevò Costantino Mortati – che “il valore sociale del cittadino” va desunto “dalle sue capacità, non da posizioni sociali acquisite senza merito dal soggetto che ne beneficia”.
E il significato profondo del c.d. “principio lavorista” si concreta nel legame tra centralità della persona umana e centralità del lavoro, per cui riconoscere dignità alla persona significa “riconoscere dignità alla condizione umana di lavoratore e di lavoratrice”; connessione quella tra persona e lavoro che acquista ulteriore valore quando si consideri l’uso che del lavoro avevano fatto i regimi totalitari, in particolare quello nazista, tristemente simboleggiato dalla scritta posta all’ingresso dei campi di sterminio “Il lavoro rende liberi”.
L’antifascismo della Costituzione, in sostanza, permea l’architettura dell’intero sistema e non emerge solo dalla XII disposizione transitoria e finale che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista; disposizione che qualcuno in tempi recenti ha proposto addirittura di cancellare dal testo costituzionale, trascurandone l’attualità – e la necessità se mai di dotarla di operatività, non riducendola a mera enunciazione di principio – visto il proliferare di gruppi neofascisti – da Forza Nuova ai centri di Casa Pound – sdoganati nel corso degli anni anche a causa di inaccettabili accordi elettorali stretti con essi da parte della Destra istituzionale: accordi che hanno progressivamente favorito all’interno dell’area del neofascismo un senso generale di legittimazione.
Per questo la memoria deve continuare giorno dopo giorno, anno dopo anno, nella speranza che il desiderio delle nuove generazioni di conoscere sia più forte del desiderio che ciclicamente ritorna in alcuni di confondere, rivedere, revisionare, quasi a voler far dimenticare che c’era una parte giusta, quella della Resistenza, e una parte sbagliata, quella dei fascisti.
E alla luce di questo quadro, credo che ricordare non sia solo un dovere da compiere verso i partigiani – uomini e donne – ma debba significare anche convinta adesione a quegli ideali di cui siamo eredi e impegno coerente nell’attuare pienamente quel “testamento di migliaia di morti”, rappresentato dalla Carta costituzionale.
Perché se è vero che le Costituzioni sono lo strumento che i popoli si danno nel momento della saggezza, per il momento della confusione, nella delicata fase che stiamo vivendo – caratterizzata da una crisi economica sempre più drammatica, da un precariato diffuso che priva di futuro e di prospettive i giovani, dall’acuirsi e dall’aggravarsi della questione morale, che delinea un quadro di corruzione diffusa capillarmente – non ci resta che aggrapparci alla saggezza del testo costituzionale, ultimo baluardo rimasto.
Se ci guardiamo attorno, tuttavia, l’agenda politica ci appare spesso diversa e anche nel passato recente all’ordine del giorno sembra esservi stato piuttosto un progressivo appannamento del patrimonio di principi e di valori di cui la nostra Costituzione è espressione.
Basti pensare alla riforma del mercato del lavoro recentemente approvata a colpi di fiducia dalle Camere.
Si tratta di un provvedimento che, prevedendo la reintegrazione per i soli licenziamenti discriminatori e optando per una monetizzazione dei diritti, è assai lontana dalla centralità riconosciuta al lavoro dalla Carta costituzionale ed è figlia, piuttosto, di quella perversa concezione per cui liberalizzare i licenziamenti sarebbe un modo per aumentare l’occupazione nel nostro Paese, trascurando che gli elementi che disincentivano gli investimenti sono al contrario rappresentati da una corruzione diffusa e da una burocrazia soffocante.
Un’aggressione quella alla dignità del lavoro che prosegue con l’attacco alla libertà sindacale – tutelata dall’art. 39 della Costituzione – in difesa della quale, nella quasi totale afasia delle forze politiche, è intervenuto il Tribunale di Roma con una pronuncia che non è folclore locale, ma è una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano; sentenza cui mi auguro ci si affretti a dare esecuzione, dimostrando così di essere all’altezza delle richieste dell’Europa anche in materia di applicazione della normativa antidiscriminatoria nei luoghi di lavoro.
Così come sotto la scure dei giudici – dai tribunali ordinari, al Consiglio di Stato, alla Corte di Cassazione, fino alla Corte costituzionale – è caduta a pezzi la politica miope e incostituzionale dello scorso governo Berlusconi in materia di immigrazione. I giudici hanno, infatti, bocciato l’aggravante di clandestinità, il divieto di matrimonio con irregolari, il reato di clandestinità (nella parte in cui era prevista la pena del carcere per gli immigrati irregolari), nonché i respingimenti in mare dei migranti, tanto cari all’ex Ministro Roberto Maroni e per i quali l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
E accanto allo svuotamento del testo costituzionale a colpi di leggi ordinarie, divenuto prassi invalsa nel passato recente, sta riemergendo anche la retorica di chi dipinge la Costituzione come un bagaglio obsoleto, sacrificabile sull’altare della governabilità.
Dopo la criticabile approvazione-lampo dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, si sta, infatti, discutendo in questi giorni al Senato, nel silenzio generale, una riforma costituzionale che – al di là degli improvvisati emendamenti volti a introdurre il semipresidenzialismo alla francese, presentati da Alfano – già nel suo testo-base appare pericolosa e non desiderabile. Perché dietro alla foglia di fico della riduzione del numero dei parlamentari si nascondono, come hanno evidenziato illustri costituzionalisti, norme tese ancora una volta a rafforzare il Governo e i poteri del Presidente del Consiglio, a discapito del Parlamento, già sufficientemente mortificato nelle sue funzioni.
L’impressione è che il tema delle riforme istituzionali sia agitato in modo strumentale, quasi a supplire all’incapacità o alla non volontà di affrontare i nodi politici sul tappeto, quali la riforma della legge elettorale, del finanziamento ai partiti e delle norme anti-corruzione.
La speranza è che, come più volte già accaduto in passato, la tragedia si traduca in farsa e che anche quest’ultima forzatura costituzionale non giunga al traguardo grazie al fatto che la serietà della Costituzione del ’48 è maggiore delle disinvolture dei suoi antagonisti.
Perché ciò accada è, tuttavia, necessario che le voci critiche siano ascoltate e che anche le forze politiche che in passato hanno difeso la Carta costituzionale dimostrino coerenza perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica in occasione del 150° dell’unità nazionale, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.
Un programma, in sintesi, che spetterebbe alla politica realizzare. Certo a quella politica alta e nobile cui urge tornare se non vogliamo consegnare il Paese ai “populisti della rabbia”; una politica che ricominci a essere strumento per il perseguimento del bene comune e smetta di essere ingessata nelle cautele, nelle rendite di posizione, nelle logiche oligarchiche e negli egoismi identitari o, nei casi peggiori, sia addirittura ridotta a comitato d’affari o a faccenda privata di scambi, di soldi e di favori.
Una politica che torni a essere credibile e coerente e che ricominci a guardare lontano, avendo a cuore non le prossime elezioni, ma le prossime generazioni.
La scommessa sulla tenuta della Costituzione è la scommessa sulla permanente vitalità del suo patrimonio valoriale, sulla capacità del Paese di non disperderlo e di non disperdere la memoria storica che consente di trasmetterlo di generazione in generazione.
Perché, considerato il passato da cui proveniamo (e anche la vicenda di Cevo lo dimostra), ci meritiamo un futuro migliore e per costruirlo dobbiamo, credo, come scriveva Luis Sepulveda, imparare da chi ha resistito, da “chi ha fatto del verbo resistere carne, sudore, sangue e ha dimostrato senza grandi gesti che è possibile vivere, e vivere in piedi, anche nei momenti peggiori”.
Francesca Parmigiani