Ragazzi del secolo scorso
9 maggio 2012: Attilio Sala (classe 1928) e Rino Torcoli (classe 1930), di Lumezzane, sono a Brescia, nella sede dell’ANPI, per rilasciare testimonianza sulla loro esperienza resistenziale.
Due storie come tante, eppure uniche, che vale la pena far conoscere. Tessere del mosaico della storia, voci che aiutano a capire.
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Attilio Sala, nel giugno 1944, è seminarista a San Cristo e si sta preparando per gli esami di fine ginnasio. Ci sono degli insegnanti antifascisti, come quello di storia, che poi fuggirà, e quello di algebra: dice che il segno meno davanti ribalta tutto, come i fascisti.
Sono in quattro, con Attilio, a scegliere di sostenere gli esami da “esterni”, all’Arici, il collegio dei figli dei signori. Un azzardo, quindi bisogna studiare molto, anche quando gli altri sono già tornati a casa per le vacanze. È quindi a loro che si rivolge il rettore: “Volete servire il vescovo, Monsignor Tredici, quando dirà messa alle carceri di Canton Mombello?” Accettano subito. Varcano una teoria di cancelli, che ogni volta si chiudono alle loro spalle. A un certo punto da una porta escono cinque preti, carcerati perché sospetti di avere aiutato i partigiani: tre si mettono in ginocchio ai piedi del vescovo. Attilio rimane molto turbato dalla scena: perché prostrarsi in quel modo? Proseguono, corridoio dopo corridoio, cancello dopo cancello, fino a uno spazio grande, sembra un enorme chiosco circondato da passerelle di ferro. L’altare provvisorio in mezzo, i detenuti intorno. Per l’occasione indossano casacche a righe tutte nuove.
Attilio, incaricato della distribuzione delle immaginette al momento della comunione, riconosce due del suo paese: Angelo Ghidini, “Gilì dei Coegn”, e Pietro Rossetti, “Pierino de Micio”.
Ricorda di averli visti girare armati, ma senza appartenere a qualche formazione.
Finita la messa, uno grida due volte: “Disighe a la me mama che i me manda en Germania!” In quella una pioggia di bigliettini cade dalle passerelle: i chierici tentano di raccoglierle, ma le guardie li allontanano: “Ci pensiamo noi a farli avere al segretario del vescovo!” Tra quei detenuti ci sono Speziale, Gheda e Guitti, che qualche mese dopo fuggiranno per il varco aperto da una bomba: con loro anche Gilì, che si aggregherà alla 122^ brigata Garibaldi.
Pierino invece entrerà nelle Fiamme Verdi.
Gilì sarà ucciso in circostanze misteriose: sua madre Laurina andrà a cercarlo fino a Bagolino. Dopo la Liberazione troveranno i suoi resti a Cimmo: lei lo riconoscerà dai capelli.
Il CLN farà sì che la sorella abbia la concessione di un chiosco di verdure. Il 22 aprile, tre giorni dopo la battaglia del Sonclino, Attilio è a casa (“baregae a mo coi prec”) e lo lasciano entrare nello sgabuzzino dove hanno portato i caduti di cap bie gal (campo del gallo), catturati e subito dopo finiti con un colpo alla testa.
Capelli lunghi, sembrano i banditi uccisi dai piemontesi.
Sono state le donne di Fontana, salite a far legna, a correre giù: “Ci sono i morti, abbandonati a terra!” Il parroco, don Tirelli, ha raccolto un po’ di uomini, che sono andati su con le scale da usare come barelle. Hanno portato i sei cadaveri al cimitero di Pieve. Altri due li hanno trovati i cacciatori di Gazzolo, nel rocol de Sgues (roccolo Sguizzi).
Per la loro identificazione arriva il dottor Palmieri e li fa misurare tutti. Ma è il Moreni della 122^ quello che si dà più da fare.
A conclusione del suo racconto Attilio spiega perché Lumezzane, infossata in un territorio angusto e scarsamente strategico, pullulasse di fascisti: forse era la potente famiglia Gnutti a mettere loro a disposizione le sue strutture, cosicché la valletta era diventata una roccaforte armata fino ai denti, piena di spie, delatori, picchiatori del ’22.
Il battaglione M era allocato nelle scuole di S.Apollonio (tra loro anche Fiorenzo Magni, il ciclista: dopo la Liberazione, quando il giro d’Italia fece tappa a Brescia, ci fu una manifestazione contro di lui). Il battaglione S. Marco era alle medie Serafino Gnutti di S. Sebastiano e al dormitorio degli operai della Eredi Gnutti (ora c’è l’ospedale). La brigata Tognù alle scuole del Villaggio Gnutti.
La questura all’albergo Gnutti (ora c’è il liceo): un albergo di lusso, dove però erano detenuti personaggi che i fascisti volevano tenere al sicuro dai tedeschi (come il figlio di Matteotti o Starace, caduto in disgrazia).
Le nostre mamme da ragazzi ci dicevano: Sti atenti oter che ghi el sang strùmit Sì, eravamo tutti figli del sangue strùmit dei combattenti del 15-18, per far comprendere come ci sia stata un’altra terribile guerra, prima, a spaventare il sangue e a dare quotidianità alla violenza.
Cosicché i fascisti altro non erano che i continuatori di quella violenza, che poi si sarebbe ritorta su loro stessi.
Rino Torcoli apprende l’antifascismo in famiglia: suo padre è di Sulzano, un “forestiero” giunto a Lumezzane per lavorare fin dal ’26/’28 .
All’osteria del Dosso entrano i fascisti e vogliono che canti “Faccetta nera”. Si rifiuta, e li accusa di essere degli imboscati, mentre lui ha fatto l’alpino nella Grande Guerra… Lo massacrano di botte e deve fare quaranta giorni di ospedale.
Da quel momento è schedato come “antifascista”. Ogni tanto arrivano, olio di ricino e manganello:
– “Canta!”
– “No!”
E giù botte, anche alla moglie incinta, che dopo poco abortisce.
Rino ha solo sei anni e assiste alle violenze, ma non dimenticherà mai, mai l’angoscia provata nel vedere la mamma in quelle condizioni. Sente il suo odio per i fascisti nascere in quel momento, come un fuoco che gli si accende nella pancia. Tanto che l’8 settembre corre a prendere a martellate il simbolo del fascio a Mezzaluna: ha esattamente tredici anni e quattro mesi.
Suo padre, che lavora alla Carlo Gnutti, non può mancare al sabato fascista: lo controllano sempre. Ma dopo l’8 settembre, uno che fa il commerciante di legna ed è amico di qualche fascista, lo fa esonerare per mandarlo in montagna come boscaiolo.
Rino gli porta su da mangiare: un giorno si imbatte in Tito, che gli chiede di procurare il cibo anche per la 122^ Garibaldi.
Così diventa una staffetta: va a Travagliato, dove scambia le castagne con la farina da polenta. Se non ha nulla da scambiare, la compera. Si procura due sacchi di tela rosa (come quelli della posta), che tengono quindici chili di roba, e fa avanti e indietro.
Quando al crocevia di Sarezzo avvista un posto di blocco, dove i fascisti della Tognù sequestrano a tutti la farina, Rino butta i suoi sacchi dal finestrino del tram. Torna a caricarli sulla bici quando se ne sono andati.
Suo padre ha messo a disposizione della 122^ la sua stalla al Batol: se ne servono per fare riunioni o come deposito di pecore e capre da uccidere e suddividere fra tutti. Oltre che come rifugio per i ricercati.
Rino ha l’incarico di fare la vedetta. In caso di pericolo fuggono dalla finestra che dà su un cunicolo che porta in montagna.
Il comandante in valle è Nino Berna: anche lui lo adotta come mascotte e ricorre alla sua disponibilità in caso di bisogno. È così che fa il palo anche quando assestano il colpo alla BDP o alla caserma dei pompieri di Mezzaluna (con il consenso del comandante: in quell’occasione prelevano coperte, scarpe e altri oggetti utili ai partigiani). Aspetta sotto le finestre delle Armerie Gnutti che gli operai gli buttino giù le scatoline con la polvere da sparo per caricare le bombe a mano. Quando invece gettano i pezzi, lui li consegna al padre, che li assembla e li porta a Tito.
La sua pistola, una Luger, se l’è procurata sottraendola a un tedesco che si era tolto il cinturone per fare l’amore con una donna. Il 25 aprile è alla Polveriera, con quelli che “prelevano” trecento alternatori.
Il 26 aprile i tedeschi ingaggiano battaglia contro 150 insorti a Rocca d’Anfo, che telefonano a Lumezzane: Rino è con quei trenta che corrono a dare manforte, ma arrivano quando i tedeschi si sono arresi. Sulla strada del ritorno si imbattono in un carro-officina, lo portano a casa per darlo alla cooperativa di S. Sebastiano, che assiste i bisognosi. Con il carro, privato dei tornietti, quelli del CLN vanno sotto il Po a prendere la farina.
Tra aprile e maggio 1945, quando non si sono ancora spenti i fuochi dell’insurrezione, Nino Berna incarica lui e Guido Boventi, Polaen (di Polaveno, classe 1928), di contribuire a “fare giustizia”: i due ragazzi vanno avanti a tagliare i fili del telefono, poi arrivano i partigiani armati. Comincia così, per lui, l’operazione di “pulizia” nei confronti di chi gli ha spaventato il sangue fin dai suoi sei anni e che, quando era vincente, non ha avuto pietà per nessuno.
Il sangue strùmit di suo padre e di sua madre continuerà per almeno un paio d’anni a pulsare nelle sue vene. Anche il novembre del ’45, quando i partigiani bresciani si riuniscono alla S. Eustacchio: arriva la notizia che sui Ronchi c’è un raduno di fascisti.
Rino va avanti a fare il suo solito lavoro con i fili del telefono, poi arriva Tito e fa piazza pulita. Parte la denuncia e Rino scappa a Polaveno, nascosto per quindici giorni. La polizia di Scelba, però, lo ha scambiato per un certo Casari di Gardone, che è piccolo come lui, ma zoppo. Così, quando il Casari dimostra di avere un alibi di ferro, la cosa si risolve in un nulla di fatto e Rino si ripresenta al lavoro. Ma lo hanno già licenziato: è per l’intervento di Pietro Paolucci, il sindacalista, che viene reintegrato alla Eredi Gnutti.
Nel 1951, richiamato per il servizio militare, frequenta il corso di motorista alla Cecchignola. Il tenente lo chiama da parte e gli dice: “Che cosa hai fatto? Raccontami del tuo passato. Puoi stare tranquillo. Anche mio fratello era un partigiano, a Roma”.
Scopre così che sulla sua cartella personale c’è scritto: “Elemento pericoloso, da non armare”.
(Testimonianze rilasciate a Bruna Franceschini)