di Bruna Franceschini
Una storia non ancora completamente narrata, “multiforme”, che raramente riguarda fatti militari, come nel caso di Santina Damonti, la Berta, staffetta di Verginella e di Speziale, che gira armata e partecipa alle azioni. La Resistenza delle donne è soprattutto una “realtà di sentimento”, i cui motivi per aderire sono molteplici. Discorso che vale in particolare per le ragazze, le quali non sono spinte a difendersi dai bandi di Graziani o di Almirante. La loro molla è un’altra, quella di una generazione segnata da domande inquietanti sul senso delle leggi razziali e della violenza. La parte avuta dalle donne nella Resistenza è assai ampia e caratterizzata dallo specifico di genere. Per i comportamenti fondati quasi sempre sulla parentela, per le forme “colorite” e per gli strumenti usati, associati al femminile: la civetteria, come fa la Berta quando finge di flirtare col tedesco, per passare la sbarra di Gardone senza essere perquisita, o la sedicenne di Roè Volciano Elsa Pelizzari che, scoperta all’uscita di un deposito, dalla cui finestra ha passato delle coperte al fratello garibaldino, dichiara: “Ero venuta per iscrivermi alle ausiliarie”. L’ostentazione di debolezza, come fanno le valsabbine Carla Leali o Pina Prete, quando fingono di svenire per distrarre i fascisti in procinto di scovare un ricercato. L’uso della maternità per raggiungere lo scopo, come fa Maria Lonati di Botticino, che accende premurosa il fuoco per i fascisti, affinché non salgano la scala che li porterebbe a snidare il figlio Pietro (Spartaco). Strumenti connessi alla casalinghità, per cui infilano le bombe nei pani di burro o la pistola nel sacchetto della pasta (come la bresciana di adozione Bruna Scotti), stampano in casa i volantini di propaganda, mettono bombe o stampa clandestina nella borsa della spesa (come la bresciana Antonia Oscar, la bresciana di adozione Maria Pippan o la rovatese Maria Lupatini), spacciano le riunioni per incontri tra amiche, stendono la biancheria per avvisare di una retata, come le donne valtriumpline o valsabbine.
I contenuti attengono alla tutela dei più deboli, all’evangelico dar da mangiare agli affamati, al rispetto per i morti, per cui Brigida Pasquini in Val Camonica, Anna Maria Venere a Rovato e Maria Boschi in Val Sabbia lavano con cura i volti insanguinati dei partigiani trucidati. E per cui la contessa Costanza Bettoni cura nottetempo nel suo palazzo bresciano, per metà requisito dalla X Mas, i partigiani feriti e paga il “riscatto” per i cadaveri, per dare loro una degna sepoltura.
Le motivazioni: il rifiuto della guerra e della brutalità, il disconoscimento della legalità fascista e l’affermazione di una legalità altra. La speranza che altre donne, magari in Russia, facciano lo stesso con i loro figli, come la mamma della staffetta della 122a Garibaldi, Ausilia Gabrieli, di Marcheno.
Iniziative dalla tipologia informale e di breve raggio (quartiere, caseggiato, parrocchia: in quella di San Faustino e del Duomo, Don Vender e Monsignor Fossati coordinano le donne in un’attività di soccorso ai carcerati o di avvertimento ai ricercati). Spesso estemporanee, solitarie o di gruppo di diversa concentrazione, a volte anche consistente, come le “Massimille”, che mettono in atto una poderosa opera di introduzione di pasti nel carcere e di importazione/esportazione di messaggi.
Date queste caratteristiche, è complicato valutarne l’incidenza, poche sono le tracce lasciate, ancor meno la documentazione. Per questo le lotte inermi e spontanee delle donne sono state considerate, fino agli anni Settanta, una forma minore di antifascismo: comportamenti utili, ma secondari. Trascurando spesso di considerare che per la donna la Resistenza è stata la prima occasione di politicizzazione democratica e di affrancamento dall’impronta patriarcale che la rendeva incompatibile con la sfera pubblica. Per questo il mondo che la circondava la investiva di luoghi comuni sull’inaffidabilità femminile, sull’egoismo familistico. E quando poi, dopo la liberazione, è stata individuata la legge del tre e del suo multiplo, le donne ne sono state escluse in massa. Infatti assegnare il riconoscimento di partigiano a chi abbia militato almeno tre mesi in una formazione armata, abbia partecipato ad almeno tre azioni di guerra, subito almeno tre mesi di prigionia o lavorato almeno sei mesi in una struttura logistica, significa elargire un diritto di cittadinanza legato al diritto/dovere di portare le armi, che esclude la maggioranza delle donne.
Tra le ottomila schede compilate dopo la Liberazione e conservate nell’archivio dell’ANPI di Brescia, ad esempio, le donne riconosciute come “partigiane combattenti” sono 141, le “patriote” 83. Ma accanto al nome delle 193 “non riconosciute”, c’è scritto anche il nome di battaglia: non si capisce allora a che scopo lo avessero adottato! Del resto anche Carolina Tanghetti, di Bovegno, ha passato in carcere ben più di tre mesi, senza che qualcuno pensasse poi di tributarle un qualche riconoscimento.
Il numero di 35.000 partigiane italiane ufficiali induce quindi a sottostimare la presenza femminile nella Resistenza. Ma se, come sostiene Boldrini, per ognuno dei 220.000 armati ci dovevano essere da dodici a quindici inermi, soprattutto donne, si arriva ad ipotizzare quante di più fossero.
Restringendo poi lo sguardo al Bresciano si nota che, delle 3457 vittime censite, il 65% erano donne e vecchi, ad indicare come la violenza collettiva in funzione di monito o di rappresaglia si sia abbattuta soprattutto sulle donne e sugli inermi.
Il che ci porta a dover guardare alla Resistenza, anche nel Bresciano, in maniera più complessa, con meno disattenzione alle storie di donne, che hanno fatto guerra alla guerra innanzitutto per compassione, svolgendo un maternage di massa: per la carica simbolica connessa alla figura femminile, ma anche per spirito di ribellione, senso della dignità e, perché no, orgoglio nazionale.
Una Resistenza meno riconosciuta, perché la storiografia resistenziale fino agli anni Settanta ha privilegiato il paradigma maschile legato all’enfasi della morte, che assegna il primato al combattente in armi e restringe quindi il campo della partecipazione. Sottoprivilegiando il ruolo di assistenza e cura, di limitazione/riparazione del danno di persone il cui obiettivo era la pace e per cui resistere consisteva in comportamenti inermi ma nel contempo conflittuali (nascondere un ricercato comporta una scelta oppositiva), complementari alla lotta armata.
Molte donne il riconoscimento non lo hanno chiesto o non lo hanno documentato: perché l’oblatività non è certificabile, ma anche perché il clima del dopoguerra, se non è stato benevolo con gli ex partigiani, lo è stato ancor meno con le donne.
Laura Cartella, di Gussago, dopo la liberazione fu allontanata dalla processione perché, le disse il monsignore, “andava con tutti”. E c’è chi ha continuato ad affibbiare a Maria Boschi, di Barghe, la rima “partigiana puttana”.
Non è però solo questione di ristretti ambienti, retrivi o bigotti, se è vero ciò che anche Beppe Fenoglio osserva:
Con gli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e si erano scaraventate in città.
Erano tempi in cui una mentalità retriva e patriarcale faceva sì che la violenza sessuale fosse la più taciuta: molte donne l’hanno subita, ma non ne hanno mai voluto parlare, per non rivivere il trauma ma anche, forse soprattutto, perché il contesto dell’epoca le avrebbe portate al sospetto o all’emarginazione.
Eppure le donne non si sono arrese alla violenza repubblichina e teutonica: violenza fisica e psichica, come il carcere, le minacce e i maltrattamenti (da Santa Dusi, prima a Idro e poi a Canton Mombello, a Gina Perlotti a Edolo, da Rosi Romelli a sua madre Pina, camune e recluse in via Musei. A tante altre).
Mortificante, per le donne, è stata anche la violazione del pudore (Carolina Tanghetti non riusciva ad andare al gabinetto, alla presenza dei militi), odiosa l’ingiustizia di essere dentro senza colpa, al posto di un famigliare (Rosetta Nulli era internata a Bolzano col figlio di quattro anni, al posto del marito, Giacomina Rinaldini andò a Buchenwald perché i fratelli erano partigiani, Erminia Cuhar finì per lo stesso motivo ad Auschwitz: “qualcuno deve pagare”…)
Molte sono state le suore conventuali e ospedaliere, che hanno operato silenziosamente, instancabilmente (da suor Anicetta dell’istituto Razzetti a madre Elsa Daffini della Poliambulanza o alla stessa suor Fedele del “Civile”, ricordata con gratitudine dall’ebrea Anna Sinigaglia, perseguitata dalle leggi razziali, fin da quando aveva dieci anni). Anna Maria Venere si rifugiò nel convento di clausura delle Orsoline, che l’accompagnarono poi nella fuga.
Dai memoriali di Camilla Cantoni Marca, di Prosperina Maffezzoni e della camuna Salva Gelfi emerge un bisogno di presenza della donna cattolica oltre la sfera domestica, non proprio solidale con le resistenze antimoderniste del contesto tradizionale. Anche se alcuni importanti ambienti ecclesiastici, rappresentati da Monsignor Fossati e don Vender, sono promotori di una sanzione politica del fascismo a partire dal riscatto e dalla promozione della donna, dal suo largo impiego nella Resistenza. Antifascismo esistenziale e familistico, che coinvolge sia la famiglia cattolica (Nulli di Iseo, Cantoni Marca di Brescia) che quella laica (Passarella di Brescia) o comunista (Abbiati di Brescia, Lonati-Damonti di Botticino, Giacomelli di Bovegno). O come i Mora e gli Scalvini di Bagolino, uniti in un protagonismo non “allineato”. Famiglie che vedono le madri non opporsi, anzi, assecondare e/o partecipare.
Ancorché quasi sconosciuto, il ruolo delle tre sorelle Bettoni, aristocratiche di ascendenza politica laico-risorgimentale, attesta la trasversalità anche della Resistenza femminile, che ha capovolto la concezione del coraggio maschile, tradizionalmente connesso al soggetto guerriero e in divisa. Ora, invece, è il renitente, il “traditore”, ad essere aiutato, protetto, amato. E il disprezzo va ai guerrieri in divisa fiammante, ai fascisti, che non a caso spavaldamente intonano:
Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia nera…