Lino Pedroni aveva sedici anni, ma sembrava più grande, forse per l’altezza e la corporatura forte, forse per lo sguardo ora lampeggiante e imperioso, ora tenebroso. Aveva fondato il Fronte della Gioventù del suo istituto: spargevano chiodi a tre punte dove passavano i camion tedeschi, cambiavano la segnaletica per fargli sbagliare strada, ma fu una beffa orchestrata nei confronti di chi voleva arruolare gli studenti per la Repubblica di Salò a far finire il suo nome sulla scrivania del questore: la città divenne per lui l’anticamera della galera. La montagna l’unica via di fuga.
Il vice comandante Bruno lo prese in consegna, per farlo diventare uomo, oltre che partigiano. Gli diedero il nome di battaglia, “Modroz”, e fu mandato a tendere imboscate ai camion carichi d’armi o a sequestrare le liste di coscrizione, irrompendo negli uffici comunali: “Mani in alto, contro il muro, fuori le liste!”
Lino imparò anche come comportarsi quando era di guardia: con il binocolo, in vetta e nei posti meno accessibili, doveva imprimersi bene negli occhi il paesaggio, fino a poter indicare un punto a occhi chiusi. E fare sempre attenzione a quanto comunicavano le donne a valle, con le lenzuola messe a stendere sull’erba. Un lenzuolo significava pattuglia fascista, due una squadra, tre o più un rastrellamento. I cacciatori gli insegnarono a capire dal volo degli uccelli se c’era qualcuno. Di notte invece imparò ad ascoltare i latrati dei cani legati alla catena: se erano isolati non c’era pericolo, ma se si susseguivano di cascina in cascina, voleva dire che passava gente e c’era da stare in campana.
In brigata cominciò anche a masticare parole che non aveva mai sentito: si parlava di libertà, di democrazia, di poveri che non dovevano più essere poveri, di guerre che dovevano scomparire dalla faccia della terra. Ma Bruno diceva che per essere liberi tutti, e uguali, si doveva prima abbattere il fascismo.
Erano sul Sonclino quando Radio Londra annunciò la liberazione di Bologna e Firenze, c’era grande eccitazione, odore di vittoria. Invece arrivò l’ultimo colpo di coda dei fascisti, super armati e numerosi.
I partigiani, appiattiti contro gli spuntoni di roccia e in piccoli avallamenti, resistevano dalle sei del mattino quando l’incendio, appiccato per stanarli, li attanagliò. Decisero di ritirarsi, prima che i fascisti chiudessero il cerchio.
Uno solo era caduto in combattimento: il vice comandante Bruno. Il migliore di tutti. All’altezza della fiducia che ispirava. Lino lo aveva visto morire davanti a sé, crivellato da una mitraglia. Un dolore atroce. Era anche un amico, oltre che un maestro.
Inseguiti dai tonfi di mortaio, Lino, con la bandiera della 122^ brigata d’assalto Garibaldi ripiegata sotto la camicia e altri sette superstiti, si portarono al passo della Cavata. Poi in Vaghezza, per cercare di riorganizzarsi.
I nazifascisti ne catturarono sedici. Otto furono fucilati sul posto: i loro corpi, abbandonati a terra, furono trovati dalle donne di Fontana, salite a prendere la legna. Gli altri brutalmente torturati prima di essere uccisi. Anche Cesare, un quattordicenne: lo trovarono sbudellato e senza occhi. Lino pianse a dirotto, perché lo avevano affidato a lui. Un lavoro sporco, da brigate nere di Idro, quelle che non facevano mai prigionieri. L’insurrezione generale era nell’aria: qualcuno salì per annunciare che i tedeschi si stavano ritirando, i partigiani scesero e trovarono la piazza di Bovegno gremita di bandiere e di insorti armati di fucili da caccia. Un uomo col fazzoletto tricolore al collo incaricò Lino di piazzarsi sulla strada e fermare tutti quelli che volevano uscire o entrare. Brandendo il mitra, lui li bloccava, finché quelli del CLN li prendevano in consegna per l’interrogatorio.
Poi, con otto partigiani e una decina di insorti, scese a Tavernole, dove occuparono il presidio tedesco precipitosamente abbandonato. Il magazzino delle vettovaglie conteneva un vero ben di dio.
Verso sera una pioggia fitta batteva la valle. Lino era di guardia al cimitero da cui si dominava per un lungo tratto la strada per Brescia. Fradicio fino alle ossa.
Quel che era rimasto della brigata si era appena ricompattato quando arrivò un camion di tedeschi, che si misero a sparare all’impazzata. Li catturano tutti. Il comandante Tito li voleva mettere al muro. Il prete, parandosi davanti a loro e agitando le braccia, supplicava i partigiani: “Salvateli! Il Signore premia i misericordiosi”.
Tito esitava, ma alla fine, con qualche imprecazione, fece rinchiudere i nazisti nella scuola.
Il viaggio vittorioso proseguì. Avanzando, l’esercito di insorti diventava sempre più folto. Di tedeschi ormai neppure l’ombra.
Verso mezzogiorno arrivarono a Porta Trento, accolti da cecchini che sparavano all’impazzata. I partigiani dovevano avanzare rasente i muri, dall’una e dall’altra parte della strada. Le donne uscivano per offrire uova, zucchero, dolci. Abbracciavano Lino e lo baciavano, gli accarezzavano i capelli lunghi e arruffati, la giacchetta lacera, il rosso fazzoletto sbrindellato: lui si commosse fino alle lacrime.
Ma non aveva tempo per intenerirsi troppo, perché altri cecchini stavano tirando dal tetto della Poliambulanza e dal campanile della chiesa,
Risposero al fuoco. Poi salirono sul campanile per stanarli. Erano anche loro sei ragazzi, educati al sangue e al delitto. Forse avrebbero potuto essere bravi figlioli. Ora però erano bestie grondanti sangue: bisognava ucciderli per salvare altre vite.
Il pomeriggio corse a Rodengo Saiano, dove le SS italiane e tedesche avevano fatto martellare le loro mitragliatrici contro undici ragazzi, a villa Fenaroli. La loro, ormai, più che cattiveria era paura.
Però chi le dà secche, dovrebbe sapere che se gira il vento le prenderà secche: Lino pensò che questa volta sarebbe toccato ai nazifascisti la raggelante sensazione di avere occhi e fucili omicidi puntati addosso con libidine. Il loro comandante, zoppicante per la gamba con una placca di ferro, tentò di svignarsela. Ma venne preso e giustiziato.
“Ripulita la zona” – mormorò Lino, tra sé. Il volto adolescente solcato dalle prime rughe della durezza della lotta. Era asciutto, amaro, duro come un ragazzo diventato uomo troppo in fretta.
La guerra aveva indirizzato i giovani verso la spietata necessità delle armi. Selvaggia come selvaggi erano stati gli ultimi venti mesi.
Lino sospirò di stanchezza e di pace. Quale mondo stava per nascere, ora che era tutto finito? Gli sarebbe mancato lo stare insieme e parlare di cause giuste, sentirsi una sola cosa, mangiare lo stesso pane, volersi bene. Decise che avrebbe dedicato il resto della sua vita alla causa della giustizia, della libertà e dell’antifascismo.
Sull’aria di Gorizia, cantò tra sé la canzone che la sera intonavano davanti al fuoco del Buco. Sul Sonclino, poco prima della tragica battaglia:
I tedeschi ci chiaman banditi,
i fascisti ci dicon ribelli,
noi invece siam tutti fratelli,
che l’Italia vogliam liberar.
Bruna Franceschini
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Il saluto a Lino. L’introduzione del presidente provinciale dell’ANPI Giulio Ghidotti
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Il saluto a Lino. L’intervento della presidente di Nuova Resistenza Silvia Toti
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Il saluto a Lino. L’intervento della vicepresidente provinciale dell’ANPI Francesca Parmigiani
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Il saluto a Lino. L’intervento del rappresentante delle Fiamme Verdi Gian Antonio Girelli
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Il saluto a Lino. Il commiato del presidente provinciale dell’ANPI Giulio Ghidotti